Attuale nel riproporre oggi il monito a non distruggere ciò che, per nostra fortuna, ci ha tramandato il passato.
1865- L’America usciva da una guerra civile durissima e aveva da poco festeggiato il primo centenario dalla costituzione dello Stato nazionale. Da qualche tempo giovani artisti americani accorrevano in massa a Firenze, nello stesso anno divenuta Capitale.
Volevano scoprire un passato di cui fino ad allora si erano limitati a leggere nei libri, ed apprendere le ultime tendenze della pittura, soprattutto a Firenze e a Parigi. Arrivavano freschi, impetuosi e pronti ad assorbire il fascino della vecchia Europa.
Firenze ebbe un impatto significativo sui giovani artisti americani, così come , per parte loro, anch’essi lasciarono un segno importante nella cultura cosmopolita fiorentina. Gli “Americani” risiedevano al loro arrivo nel centro della città, poi preferivano affittare o acquistare una villa sulle colline dei dintorni, dove trovare un’atmosfera migliore e più rilassante e riuscire a tradurre in pittura quell’ispirazione che proveniva da scenari di paesaggio completamente diversi da quelli americani.
Soprattutto la luce era nuova e diversa, ma poi anche la natura finemente antropizzata e le ville, e anche le case coloniche, che erano spesso di severa squisita bellezza. Erano attratti non solo dalle suggestive atmosfere dei panorami ma anche dalle fisionomie degli abitanti. La luce e la pace venivano dipinte nei quadri, spesso con influssi francesi fusi a quelli dei macchiaioli.
Dopo l’Unità d’Italia e i sei anni come capitale dello Stato italiano, Firenze attraversò un periodo di rinnovamento e di rinascita . Affrontava, dopo anni di torpore,un esteso programma di ristrutturazione urbanistica, ma anche di ricostruzione, restauro e realizzazione di nuovi edifici.
La mostra suggerisce un percorso pittorico guidato dalla produzione letteraria di Henry James, sospesa fra America ed Europa. Illustra i molteplici e fecondi rapporti che i pittori del Nuovo Continente instaurarono – dalla seconda metà dell’Ottocento alla prima guerra mondiale – con Firenze e le altre città della Toscana. E’ costituita da quadri distribuiti in sei sezioni, realizzati da trentadue tra i più famosi artisti americani dell’epoca come John Singer Sargent, Mary Cassatt, James Abbott McNeill Whistler, Frank Duveneck, William Morris Hunt, Frederick Childe Hassam, William Merritt Chase, Julian Alden Weir, Thomas Eakins, Robert Vonnoh, Edmund Charles Tarbell, Joseph Pennell, Cecilia Beaux and Elizabeth Boott Duveneck. Le loro opere dialogano, all’interno delle sezioni della mostra, con quelle di pittori fiorentini e toscani che si avvicinavano maggiormente alla maniera sofisticata e ricca di suggestioni letterarie di quella colonia cosmopolita, come Telemaco Signorini, Vittorio Corcos, Michele Gordigiani.
Alcuni degli artisti sono presentati per la prima volta in Italia. Interessa notare che, dopo l’esperienza fiorentina, spesso frammista a quella parigina, tutti quelli che tornarono in patria divennero artisti celebri e maestri autorevoli, fondamentali per la formazione delle nuove generazioni di pittori americani e per la nascita di una pittura nazionale.
Americani a Firenze mette in luce i delicati equilibri su cui si è sempre retta la città di Firenze, stretta fra contrastanti spinte al cambiamento ed esigenze di salvaguardia della propria preziosa identità .
Leggiamo nel saggio di Carlo Sisi: “Stradoni bianchi avevano sostituito, in effetti, le mura demolite fra il 1864 e il 1869 con la conseguenza di annullare quella poetica osmosi fra città e campagna che aveva alimentato prima la sensibilità romantica sfociata nelle nostalgie dei macchiaioli di Piagentina, quindi le utopie coltivate dai ricercatori del genius loci…. «Non vivrò più a Firenze credo […] i cambiamenti paiono troppo violenti– scriveva Robert Browning all’amica Isa Blagden dopo la morte di Elizabeth– voi vi ci abituate poco a poco, ma io, se al mio ritorno trovassi passeggiate livellate, piazze dov’eran viottoli e così via, non lo potrei sopportare».
“Quando poi si mise mano alle demolizioni dell’antico centro- prosegue nel suo saggio Sisi-… la preoccupazione degli stranieri residenti si accrebbe a tal punto da vederli trasformati in polemisti militanti e partecipi ai comitati di difesa – si pensi all’impegno messo da Vernon Lee nel contrastare i progetti dell’amministrazione comunale– o quantomeno attivi nella divulgazione della «terribile questione fiorentina», come l’aveva definita Henry James segnalando che il risanamento di Firenze avrebbe inciso in maniera dolorosissima nel delicato organismo della “città-gioiello”e che quindi i responsabili di quella rischiosa operazione,divenuta terreno di scontro sui giornali d’Europa e d’America, dovevano essere resi consapevoli che «quanto è loro è, per effetto di una logica stringente, più nostro che loro». Sono dovuti passare più di cento anni perché l’Unesco, facendo propria questa filosofia, dichiarasse, nel 1982, il Centro Storico di Firenze patrimonio dell’umanità.
Ma, specchio di tempi che antepongono il denaro alla bellezza e al rispetto per il passato, oggi la stessa Unesco non degna di risposta gli appelli dei fiorentini che la scongiurano di intervenire per fermare gli scavi, questa volta sotto Firenze, che implacabilmente, incurante di ogni confronto, la maggioranza dei politici nazionali e locali persegue per dotare la città-gioiello di un’inutile e costosa linea ferroviaria sotterranea con annessa stazione, la famigerata TAV. Operazione sicuramente rischiosissima e quindi da evitare, considerando che «quanto è loro(dei Fiorentini) è, per effetto di una logica stringente, più nostro(dell’umanità) che loro»- torna ad ammonire da questa mostra lo scrittore ottocentesco.
LUCIA EVANGELISTI
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