La miglior presentazione del tipo di uomo che era Brian Duffy, (1933-2010), il celebre fotografo londinese, si fa citandolo: “Prima degli anni 60, un fotografo di moda era alto,magro e molto effemminato. Ma noi tre siamo tutt’altro: bassi, grassi ed eterosessuali…Non permettevamo a nessuno di dirci cosa dovevamo fare”. Con gli altri due, David Bailey e Terence Donovan, Duffy costituiva la cosiddetta “Black trinity”, il trio che aveva rivoluzionato la fotografia di moda, abbandonando le precostituite e scontate immagini anni 50.
Ora le sue fotografie, esposte, per la prima volta in Italia in una mostra allo MNAF di Firenze fino al 25 marzo, ci mostrano, erompente, la swinging London. Tra la fine degli anni 50 e gli anni 70 Duffy aveva prodotto una grande quantità di foto straordinarie. Ma fu proprio lui, un giorno del 1979, ad accumulare nel back garden di casa le sue diapositive e i negativi e a dar fuoco a tutto quanto. Se ne salvarono alcuni solo per le proteste dei vicini per il troppo fumo!
Riteneva di aver detto tutto ciò che poteva attraverso la fotografia? Nessuno lo sa, neppure il figlio maggiore, Chris. Quello che ha passato anni a ricercare in tutto il mondo foto paterne, sia in archivio, sia raccogliendole a giro, sia fotografando quelle dei giornali di moda che più gli parevano indicative. Ne è nato un bel libro ( ACC Pub. Group, 55 euro) , in cui ha raccolto le foto – a suo vedere- in grado di sintetizzare l’arte del padre. Poi un suo amico italiano gli ha suggerito di presentare il libro a coté di una mostra. E gli ha indicato il Museo Alinari come il più adatto per una operazione culturale di tale portata.
Il figlio, colla sua narrazione puntuale e dettagliata di particolari inediti, rende viva la storia passata. Narra, con grande affettività, quanto era difficile lavorare con un uomo così talentuoso ma sempre provocatorio, anarchico e abrasivo. Ci fornisce, conducendoci per la mostra, il back stage di tante foto , rispondendo con buona grazia alle domande incalzanti del pubblico. Una storia nella storia, il suo difficile rapporto col padre-genio, culminato in un coraggioso, quanto necessario allontanamento da lui,durato degli anni, alla ricerca, in America, di una propria identità. Poi, al suo ritorno, è proprio per la sua insistenza che il grande fotografo,nel 2009, venti anni dopo il falò, ha ricominciato a fotografare. E la BBC,nel 2010, ha trasmesso un documentario sulla sua carriera, intitolato”L’umo che ha filmato gli anni 60”.
Per chi ha vissuto gli anni 60 -o rivisita interessato quel periodo-c’è modo, attraverso i ricordi che il figlio Chris narra in mostra passando in rassegna le foto, di conoscere particolari inediti della vita di personaggi famosissimi, David Bowie, Jean Shrimpton, Sammy Davies junior, per citarne alcuni.L’idea del trucco a forma di fulmine sulla faccia di David Bowie, icona pop proprio per questa immagine, è stata di Duffy, che l’ha vista disegnata su…una batteria . Storie rimaste segrete perchè la stampa non andava a caccia di scoop biografici. Una sorta di mistero (calcolata?) tendeva a rendere i personaggi icone irraggiungibili, perchè il back stage non faceva notizia come oggi.
Apprendiamo, sempre dal figlio, che le modelle arrivavano sul set fotografico con grandi borsoni, coi bigodini ed il Phon, si facevano i capelli da sole, e poi sempre da sole si truccavano. Eppure da ogni scatto fotografico di Duffy emergono personalità forti e c’è un’intensità emozionale che non ha nulla da invidiare a molte foto di moda attuali, risultato di scenografie rocambolesche ( contrariamente agli sfondi di Duffy, che sono quasi sempre un bianco assoluto) e di squadre di truccatori e fotografi.
Vero è che, a rendere operative le nuove idee tecniche inventate continuamente da quel geniaccio di Duffy, toccava al figlio. E guai se si mostrava in comprensibile difficoltà a metterle in pratica -ci racconta Chris-. Duffy si offendeva come se il figlio non volesse collaborare con lui.
Duffy era definito “fotografo di moda”. Approfondiva la tecnologia alla ricerca di effetti sempre più difficili e nuovi. Questo si vede in mostra, ad esempio, dal movimento di gambe e veli, o anche dall’espressione piena di luce interiore della Shrimpton. Lui non si considerava un “artista”. Era il suo lavoro. Punto. Oggi noi,guardando le sue foto, che spaziano fra tutti i generi, dai reportage, ai ritratti, alla pubblicità, lo possiamo dire con certezza che era un artista geniale. E il suo lavoro ci permette di sfogliare un periodo storico che ha stravolto, anche grazie a lui, il modo di pensare della moda sulla bellezza e della società sulla sessualità delle donne.
Firenze, Lucia Evangelisti
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