Nome: Gennaro Formosa. Professione: imprenditore, “non sarto, perché purtroppo mio padre non voleva che facessi il suo lavoro. Mi sono laureato in economia e commercio ed ho fatto all’inizio tutt’altro percorso lavorativo”. Queste sono le parole di Gennaro. Il suo racconto è un viaggio in una Napoli in bilico tra tradizione e presente, in cui il fare a mano si mixa con storie di famiglia, tessuti, passione, eleganza e quel touch di napoletanità che lo contraddistingue nel parlare e nel suo modo di fare.
Lui è figlio d’arte, di Mario Formosa, un sarto napoletano di quelli che hanno fatto la storia della sartoria napoletana e l’hanno resa celebre nel mondo. Gennaro è stato sin da bambino a contatto con questo mondo e seppur i suoi studi di economia lo avevano portato ad occuparsi di controllo di gestione per altre aziende, era sempre accanto al padre occupandosi del lato amministrativo e contabile della sartoria. Ma ad certo punto la passione per questo mondo irrompe nella sua vita “andai da mio padre egli dissi una bugia, che mi avevano licenziato ed ero senza lavoro. Da quel giorno iniziai un nuovo percorso accanto a Lui. Dal 2004 sono impegnato totalmente in questa attività”.
Come mai non hai scelto fin dall’inizio questo lavoro? “Mio padre voleva che diventassi un professionista, un avvocato, un commercialista. Lui lavorava oltre 12 ore al giorno, era un lavoro di sacrifici e non voleva per i figli la stessa vita. Ma col tempo la sartoria ha assunto una valenza differente rispetto al passato. Posso confermare che dagli anni ‘90 c’è stato un vero e proprio riconoscimento di questo lavoro, prima di tutto da parte del cliente. Il riconoscimento di una professione. Agli occhi della società non eri più il semplice bottegaio ma un maestro artigiano, quello che a Napoli chiamano “O Mast”. Questo ha fatto sì che dal 2000 in poi ci sia stato un crescendo di interesse verso quest’arte, e la figura del sarto ha attratto molti giovani. Un po’ come è accaduto ad esempio con gli chef! Fortunatamente anche noi abbiamo diversi ragazzi a cui riusciamo ad insegnare questo mestiere”.
Tuo nonno era un sarto? “No, è stato mio padre a volere imparare quest’arte. Ti racconto questo aneddoto. Tutto nasce da un sogno. Ad 8 anni papà raggiunge mio nonno in un circolo dove giocava a carte. Gli racconta di aver sognato la notte prima di lavorare nella sartoria dell’amico che gli sedeva accanto. Mio nonno lo guarda e con fare amichevole chiede a questo amico se fosse disposto prendere il figlio a lavorare in bottega. E così è stato. Da un sogno nasce il vero sogno di Mario Formosa. Ad 8 anni va a scuola ed in bottega”.
Il racconto di Gennaro del padre è una sorta di atto di amore, un amore che continua ancora oggi tanto che le sue giacche “continuano ad avere il nome di mio padre perché ho sempre voluto che fosse riconosciuto sempre il suo lavoro”. Mario Formosa frequenta poi i migliori tagliatori napoletani dell’epoca: Tamburrini e Combattenti. Per diventare sarto quindi occorreva frequentare una bottega per un lungo periodo, almeno 10 anni. Imparavi a fare tutto sia la giacca che il pantalone. Poi ad un certo punto era lo stesso sarto che ti dava una sorta di diploma presentandoti a tutti gli altri sarti. Era un rito particolare. “ll sarto giovane invitava, a spese proprie, tutti i sarti ed in questo modo si metteva su piazza e metteva il suo lavoro a disposizione degli altri sarti. Si lavorava all’inizio per conto terzi. Man mano poi riuscivi a prendere quindi la tua clientela. Mio padre nasce sarto a 18 anni, forse uno dei più giovani a Napoli”.
Generalmente il sarto si specializza solo sulla giacca, ma all’inizio i sarti tagliavano anche i pantaloni e li passavano ai pantalonai. Col tempo il pantalone è rimasto appannaggio solo del pantalonaio perché considerato un’arte minore “anche perché era il prodotto che si faceva meno a mano, perché aveva una lavorazione fatta a macchina e rifinitura a mano. Per un buon pantalone fatto a mano ci si impiega dagli 8 alle 10 ore di lavorazione. Una giacca invece dalle 40 alle 50 orientativamente, e questo ne giustifica anche il prezzo differente”.
Mario Formosa a 18 anni parte militare a Verona. Il colonnello della caserma venuto a conoscenza della sua professione lo mette subito alla prova e gli fa cucire delle giacche. Vista la sua bravura terminò di fare il militare e fece solo il sarto . “Mio padre era una persona splendida oltre ad essere un bravo sarto e nella memoria di tutti i suoi clienti”.
Mario rientra poi a Napoli ed a 20 anni inizia la sua avventura ed apre la sartoria in un posto dove c’era già un sarto, un certo Quintano in via Cavallerizza dove ancora oggi, da oltre 65 anni, si trova la sartoria Formosa. Siamo nel 1965, la richiesta di abiti sartoriali era enorme anche perché non esisteva la produzione industriale. Quindi tutti andavano dal sarto ovviamente i prezzi erano minori. “Non esisteva marketing o pubblicità era tutto un passaparola, quindi un po’ alla volta mio padre riuscì a raggiungere un ampio giro di clienti”.
Il modo di approcciarsi all’abito sartoriale è cambiato nel tempo? “Senza dubbio. L’abito sartoriale nel passato veniva fatto perché naturalmente non c’era un pronto moda. Poi la sartoria per un certo periodo è stata vista solo per coloro che avevano una fisicità non rientrante nei canoni: o troppo alti, o troppo grossi, o troppo bassi. Oggi invece è diventata uno status symbol, per molti non è più un’esigenza ma un vezzo. Dagli anni 90 in poi l’abito sartoriale è divenuto un segno di riconoscibilità del proprio tenore di vita. Visto il tempo che ci si impiega per fare un abito è inevitabile che incida sui costi, e non tutti possono permettersi un abito su misura”. Oggi una giacca fatta a mano può costare dai 1700 ai 1800, come minimo, compreso il tessuto. A Napoli i prezzi sono più contenuti perché in bottega lavorano molti giovani, ma orientativamente il prezzo medio di una giacca è sui 2000 euro.
Che valenza ha una giacca sartoriale rispetto ad una confezionata? “La giacca sartoriale, oltre ai casi un cui la gente la indossa per farsi notare, per me è un modo di vita, uno va dal sarto, fa salotto, chiacchiera. Il sarto diventa quasi un consulente e confessore. Io faccio sempre la stessa battuta: il sarto ti vede in mutande! Nasce con il cliente un rapporto di confidenza particolare. Ti racconta di tutto. Si instaura un rapporto di fiducia, ed è questa è la parte più bella del mio lavoro. Oltre al rapporto di lavoro c’è un rapporto di fiducia a 360 gradi. Al sarto possono chiedere di abbinare una cravatta, o ti chiedono consigli estetici in generale, ad esempio la moglie di un mio cliente di Potenza mi ha chiesto un consiglio su un salotto. Diciamo che il tutto rientra in un concetto ampio di eleganza, eleganza non sono negli abiti ma eleganza come modo di vita, un modo di rapportarsi alla persona che hai di fronte. Un aneddoto che ricordo è quello di un cliente che si lamentava con mio padre della quantità di punti in meno che aveva messo sulla sua giacca. Lui riteneva che se la cucitura la faceva mio padre c’erano più punti se invece passava in mano al ragazzo di bottega c’erano meno punti. Questo per far capire quanto le persone credevano in lui e nel rapporto di fiducia che si instaurava”.
I clienti della sartoria Formosa sono davvero eterogenei, hanno un’età che va dai 20 agli 80 anni. Per lo più stranieri: Stati Uniti, Svezia, Olanda, Corea, Giappone. C’è un avvicinamento dei giovani alla sartoria mai come nel passato, ma “specialmente tra gli stranieri, non tanto gli italiani, ma credo proprio che sia anche dovuto solo ad un fatto di prezzi. La generazione dei ventenni italiani non riesce facilmente a raggiungere dei risultati economici che consentono di poter andare da un sarto”.
Che particolarità ha la giacca di Mario Formosa? “Prima di tutto la comodità e giro stretto. La comodità era dovuta ad un differente taglio che mio padre faceva rispetto agli altri. Il dietro della giacca, rispetto al davanti, era proporzionalmente più largo rispetto al taglio classico standard. Lui diceva che la sua giacca aveva un leggero difetto, che il davanti si apriva un po’ perché era più piccolo. Nel complesso la circonferenza della giacca era uguale ma proporzionalmente i davanti erano più stretti del dietro. Lui non usava modelli ma tagliava e disegnava a mano. Non utilizzava nessun cartamodello perché riteneva che anche nella sua imprecisione ogni capo doveva essere unico. L’unicità te la da solo il taglio ed il disegno della giacca. Tutto si racchiude sulla spalla e sul giromanica. Papà non amava la giacca aderente, come non la amo io. Questa differenza di proporzione tra il davanti ed il dietro, leggermente più larga dietro e stretta avanti, ci ha sempre distinto dalle altre sartorie napoletane”.
Una giacca realizzata in questo modo crea un effetto diverso, affina la figura, la rende più slanciata. Gennaro segue in tutto la tradizione del padre tranne in una cosa “forse perché non sono un sarto e non cerco di imporre la mia personalità in maniera eccessiva come faceva mio padre. Cerco di raggiungere un equilibrio su tre aspetti: il desiderio del cliente come vuole vedersi, il limite fisico del cliente, la personalità della mia sartoria cioè come taglia e come vede la giacca il sarto. Quando si arriva ad un giusto compromesso tra queste tre esigenze per me il cliente resta soddisfatto. La caratteristica di tutti i sarti napoletani del passato era quella di imporre, con rigidezza, il loro modo di vedere l’abito”.
Clienti speciali di tuo padre? “Grazie alla sua bravura è stato a contatto con grossi nomi nazionali ed internazionali. Ad esempio la famiglia Benetton; abbiamo realizzato gli abiti per la scuderia Renault tramite Flavio Briatore. Ho un bellissimo ricordo, la lettera ricevuta dopo la morte di papà da un cliente importante: Sir Antony Bamford titolare della JCB. Mi scrisse parlandomi di mio padre e del loro rapporto di amicizia. Mi commosse pensare che mio padre e questa persona non si parlavano con le parole, mio padre parlava a stento solo italiano e lui solo inglese. Dialogavano con gli sguardi e con i gesti. Portava un grande rispetto nei confronti di mio padre. Una delle persone più potenti e ricche della Gran Bretagna, aveva altri due sarti, veniva due o tre volte all’anno in Italia con la sua barca ed appena arrivato faceva chiamare mio padre per incontrarlo. Per Sir Antony l’incontro ed il rapporto umano era una cosa importante. Faceva fare tanti abiti ma per lui era importante parlare con mio padre e far capire cosa voleva senza poter comunicare però nella stessa lingua. Quello che ho sempre visto grande in mio padre è la sua persona, la sua educazione il rispetto delle persone”.
Ti piacciono le pence? “Io amo i pantaloni con due pence, oggi invece non li vedi indossare neanche in occasioni eleganti. E’ esteticamente più armonioso, lo consiglio per uomo robusto e magro. Spesso si vedono persone grosse con abiti stretti e persone snelle con abiti larghi, invece è tutto l’opposto. Il problema è solo di proporzioni. In sartoria non si parla di moda, però ci sono delle tendenze. Ci sono periodi in cui si porta il pantalone un po’ più largo o leggermente più stretto, stiamo parlando di tendenze annuali. Ad esempio in questo periodo piace la cintura del pantalone molto ampia di 4 cm, di solito è di cm. 3,5 anche se alcuni esagerano arrivano a cm. 5 o 6. Occorre sempre guardare alla fisicità, al tessuto. Si può giocare sulla ampiezza di una cinta più alta ma non è un capo che poi indossi tutti i giorni”.
Il business di Sartoria Formosa è il bespoke, quindi la prova dell’abito è fondamentale. “In casi eccezionali, come per gli stranieri, realizziamo l’abito con le misure anche se non è quello che ci piace, ma per venire incontro anche a costi di spostamento, il cliente si accontenta di avere un primo contatto col sarto. La persona deve avere fiducia che chi ti segue farà anche il taglio e l’abito”.
Chi è per te un uomo elegante? “Una persona educata”.
A chi vorresti realizzare un abito? “Un sogno che continuerà ad essere tale: Maradona. Io non penso ai grandi miti della tv o del cinema. Ho in mente mio nonno che era semplicissimo. Lui esercitava un lavoro particolare, una sorta di baratto con la merce estera che arrivava a Napoli. Mio nonno vestiva sempre in abito e cappello, capello brillantinato e rispettoso delle persone, di una eleganza assoluta. Noi abitavamo a Portici e rientrava in autobus ma manteneva un portamento elegante. Ecco a Lui avrei fatto un abito”.
Tessuto preferito? “Il lino, perché ha una grande morbidezza. Io non amo i vestiti rigidi che non si gualciscono, che invece molti mi chiedono, come i clienti asiatici. Amo la comodità ed il senso di vissuto”. Colore preferito? “Verde, perché forse è il colore che proponeva mio padre”. Cosa non indosseresti mai? “Una camicia a maniche corte”.
Tu che frequenti il Pitti Uomo cosa pensi di questi uomini che stanno tutto il tempo fuori a farsi fotografare? “Purtroppo è un circo dove ognuno cerca di farsi notare, ma in peggio, ci sono molte esagerazioni e non penso che nella vita privata si vestano in modo così eccentrico. Il vestire deve rappresentare quello che si è, se sono così pacchiani o pagliacci allora vuole dire che lo sono anche dentro. Ma spero di no, lo spero per loro”.
Il futuro della sartoria? “Purtroppo parlarne subito dopo il covid è complesso, spero, un sogno, però che resti sempre il rapporto umano, cosa che si sta perdendo con questa nuova rivoluzione del MTM (made to measure) che fa perdere il contatto con il cliente”. Hai un motto che segui? “Non fare agli altri quello che non vorresti fatto a te stesso”.
Sogno nel cassetto? “Che un domani si possano ricordare di me perché sono riuscito a portare avanti il nome della famiglia Formosa”.
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